ecco qui di seguito la prima di due parti di un interessante articolo scritto ed inviatoci da Luigi Rigolio.
*** *** ***
Sognatore verso modernista: è questo il dilemma?
Appunti sul senso delle organizzazioni nel mondo del Budo.
Sommario
- Praticare nella foresta o praticare nel “mondo”
- Il sogno e la triste realtà
- Arte o percorso?
- Le “scienze sociali” fanno parte del Budo, da prima che esistesse
- Koryu: organizzazioni antiche con problemi moderni?
- La scelta
- La vita associativa, un’opportunità formidabile per imparare
- Le organizzazioni sono parte della pratica
- Alcuni dilemmi antichi sono a tutt’oggi aperti, bisogna ri-organizzarsi
Praticare nella foresta o praticare nel “mondo”
Secondo una delle versioni della vita del più celebre samurai della storia, quando il Daimyo dei Kuroda chiese a Miyamoto Musashi di diventare Istruttore capo dei Samurai del clan, questi rispose di non essere interessato all’incarico, suggerendo di assumere Muso Gonnosuke, con il quale aveva avuto due celebri duelli. Gonnosuke accettò l’invito e così il Jodo si radicò nel Kyushu settentrionale, nell’attuale area di Fukuoka, da dove arrivò poi a Tokyo intorno alla fine del XIX secolo.
La vicenda, più o meno leggendaria, ci dice come, nella pratica del Budo, ci sia sempre stata la possibilità di praticare in solitudine, evitando di mischiarsi nelle organizzazioni “politiche”.
Musashi era un artista e di questo ci sono rimaste chiare evidenze. L’artista è colui che ricerca per tutta la vita la perfezione del gesto, l’essenza ultima di un’arte. I suoi riferimenti erano gli elementi naturali, il cielo e le stelle mentre aveva poca fiducia negli uomini e nei clan (come tutti quelli che a Sekigahara erano dalla parte sbagliata…).
Alcuni passi del libro dei 5 anelli, considerato il suo testamento, rappresentano comunque aperture ai temi “extra tecnici”:
“L’importanza della scherma non può essere confinata alla tecnica soltanto.”
“Non è possibile conoscere a fondo se stessi se non si conoscono gli altri. È tanto facile cadere in errore. Non basta esercitarsi quotidianamente, se lo si fa in maniera sbagliata non si raggiunge mai lo scopo”
Noi non sappiamo cosa intendesse Musashi per “maniera giusta di esercitarsi”, ma è certo che non tutti sono adatti o interessati alla pratica solitaria e così nascono le scuole, le associazioni, le federazioni che, nel bene e nel male, tramandano una disciplina o un’arte nel tempo.
In seguito ai miei interventi sull’opportunità di ragionare sulla gestione delle nostre associazioni, alcuni hanno espresso, più o meno esplicitamente, dubbi sulla compatibilità tra mondo del Budo ed approccio “manageriale”, che finisce per mischiare ciò che è sacro con il profano, che comprende denaro, il potere, etc….
In particolare da un articolo Enrico Salvi, apparso sulla rivista KI, si leva la voce di un “sognatore”, che da voce a tutti coloro che mal sopportano la contaminazione del Budo con il mondo del “marketing e management”.
Tale posizione merita attenzione in quanto coglie perfettamente un sentire che ognuno di noi, soprattutto con il cuore e con la fantasia, condivide. Sono grato a Salvi per averlo espresso stimolandomi a tornare a riflettere su alcuni temi fondamentali.
Il sogno e la triste realtà
A tutti noi piacerebbe praticare in un dojo popolato di persone civili ed educate, naturalmente inclini ad un’ubbidienza umile, fedeli per la vita, votate allo studio della disciplina. Sarebbe bello poterci dedicare alla pura pratica, seguendo l’insegnamento di prestigiosi maestri, rimanendo almeno per qualche ora lontani dalle miserie quotidiane.
Se questo è il sogno, come ci possiamo sentire quando dobbiamo affrontare tutte quelle piccole seccature che derivano da aspetti che sembrano non centrare nulla con la pratica, quando dobbiamo affrontare gli iter burocratici per aderire ad un’organizzazione che sembra lontana e “politica” (nel senso italiano del termine), quando dobbiamo affrontare conflitti e spaccature interne al nostro gruppo, quando dobbiamo raccogliere le iscrizioni, sollecitando i soliti ritardatari solo per pagare l’affitto della palestra? Senza contare lo scorno di quando, nonostante tutto il nostro impegno ed i sacrifici, veniamo bocciati ad un esame o sconfitti ad una competizione (magari causa un macroscopico errore arbitrale…).
Beh, di fronte a tale distanza tra il sogno e la realtà, non possiamo che essere colti da sconforto: “Perché devo affrontare tutto ciò e non posso esclusivamente dedicarmi a ciò che mi interessa?” “Perché è così difficile fare semplicemente ciò per cui siamo qui, ovvero praticare la via della spada?” oppure “Ma cosa centrano gradi, coppe, denari, scartoffie e dirigenti federali con il nobile mondo del Bushido?”.
I più realistici di noi infine intuiscono che forse, l’organizzazione, i burocrati, i carrieristi, gli agonisti e tutti questi flagelli sono “mali necessari” e, con spirito di rassegnazione, cominciamo a costruire un paradiso mentale, libero da tutti questi inutili orpelli, che è il mondo del nobile Bushi che, senza alcuno scopo e vantaggio personale, studia gli antichi insegnamenti (che fascino il KORYU!!!). Ci sembra impossibile coniugare un passato “puro” con un presente “decadente”.
Prima di consolidare questo dualismo dobbiamo tuttavia porci una domanda che, pur non avendo una risposta, può stimolare interessanti riflessioni:
“Cosa deve succedere dentro e fuori dal dojo?” “Perché pratichiamo una via?”
Arte o percorso?
Un insegnante di Kyudo un giorno ci disse: “Tutti i praticanti sono concentrati sull’arco, è interessante invece quello che succede intorno all’arco”.
In fondo la parola DO è quella che unisce tutte le nostre discipline e ci dice che l’arma che scegliamo (ma può essere anche un pennello, come già suggeriva Musashi) è semplicemente ciò che ci consente di compiere un cammino, la parte meno essenziale dell’ideogramma.
E’ un tipico dilemma. Dobbiamo impegnarci al massimo in una pratica, allo stesso tempo, accettare che ciò cui dedichiamo la vita risulti solo un “mezzo” come tanti altri. Difficile coniugare le due cose.
Per questo, un insegnante italiano di karate con grande esperienza, visitando il nostro dojo ha sottolineato come sia più appropriato parlare delle nostre discipline come di “percorsi” (DO) che come di “arti marziali”.
Si torna sempre al punto ove dobbiamo interrogarci sul significato della pratica, sui rapporti indefinibili tra la tecnica e ciò che sta “oltre la tecnica”, o meglio, “insieme alla tecnica”.
Le “scienze sociali” fanno parte del Budo, da prima che esistesse
Il libro di Yagyu Munenori “La spada che dona la vita” (non ringrazierò mai abbastanza Marco Papetti per questa segnalazione), contiene questa affermazione:
“Non aver conflitti quando ci si trova con gli amici, dall’inizio alla fine, dipende dal saper vedere i principi di una relazione, e anche questa è un’arte marziale. La mente che osserva i principi dell’associarsi con le persone in un particolare ambiente è ugualmente un’arte marziale.”
Già nell’epoca del “Jutzu”, quando era importante che le persone imparassero veramente a difendersi ed uccidere, Munenori suggeriva di allargare la prospettiva. In realtà il celebre Maestro sottolineava semplicemente ciò che è testimoniato da infiniti testi tradizionali, ovvero che le questioni psicologiche, sociologiche e politiche sono parte del percorso umano, dunque della VIA. Ovviamente a quei tempi non c’erano le “scienze sociali” ma c’era la consapevolezze che i temi “umani” fossero di estrema importanza, anche pratica, anche “economica”.
D’altronde quanto era importante, per le comunità umane che, fin dai tempi del neolitico, cacciavano, coltivavano e combattevano cooperativamente, la capacità di organizzarsi? Probabilmente molto più della maestria “tecnica”, per cui non c’è da sorprendersi se i primi testi scritti a noi pervenuti (basti pensare all’Iliade), descrivono esattamente i problemi di convivenza nella “squadra”. Ovviamente si utilizzava il linguaggio che gli uomini avevano a disposizione, principalmente immagini e metafore. Si tratta di un patrimonio di grande valore la cui efficacia evocativa è sicuramente superiore al lascito concettuale delle nostre scientifiche accademie.
Ad esempio i mandala indicano che il “samsara”, il ciclo di nascita e morte, origina dalla “ruota del Dharma”, in alcune tradizioni mossa dai tre animali “sociali”:
Gallo: l’attaccamento ed il desiderio
Maiale: l’ignoranza
Scimmia: ingordigia di beni terreni
Sappiamo quanto l’influenza delle tradizioni buddiste provenienti dal continente abbia influenzato il Giappone ed in particolare la casta dei samurai, dunque dobbiamo ritenere che affermazioni quali quelle di Munenori mirassero, già allora, ad espandere la prospettiva dei “Bushi” verso un’attenzione alle radici del comportamento umano. Ed il dojo, come abbiamo constatato, è un luogo di elezione per questo.
A tutt’oggi, in tutte le organizzazioni, a partire dai nostri istituti scolastici, passando per le imprese e finendo nella politica, le scienze “umane” sono ritenute questioni accademiche, per giunta scarsamente scientifiche. Senza contare l’aurea negativa che in Italia gode la “politica”, che nel sogno di Aristotele doveva essere la più alta attività umana.
Il prezzo da pagare però è che, senza attenzione all’organizzazione, le Organizzazioni finiscono per fare più danni del dovuto…
Koryu: organizzazioni antiche con problemi moderni?
Per quel poco che ho avuto modo di capire in 40 anni di studio delle discipline tradizionali, sembra che il Giappone sia stato il luogo ove ogni arte veniva tramandata all’interno di un contesto formale. Ogni struttura sociale aveva una propria tradizione, tramandata con codici specifici di generazione in generazione. La moltiplicazione di sotto-scuole, che hanno tramandato le più bizzarre ed incredibili pratiche, ci fa pensare che i temi del potere, del conflitto e financo del denaro debbano aver accompagnato ogni antica “tradizione”. Viceversa lotte, tradimenti, scissioni devono essere stati all’ordine del giorno dai tempi antichi senza soluzione di continuità, anche nei Dojo. Non per nulla il messaggio buddista ha attecchito in modo così vigoroso proprio nella casta dei Samurai (nessuna predicazione è efficace in mancanza di peccatori) !!!
Immaginare un passato idilliaco, con una lineare continuità di Maestro in Maestro, in un contesto privo di problemi economico-gestionali, mi sembra una finzione iconografica buona per una sceneggiatura hollywoodiana, stile l’”Ultimo Samurai”. E’ effettivamente un sogno…
Luigi Rigolio – Kenzan Dojo
*** *** ***
Segue qui