Kendo nelle Marche


Lascia un commento

Stage autunnale CIK 2022 – Modena

Una foresta di alberi blu.

Non so mai chi sia la persona che ho di fronte.

Un ideogramma stampato sul tare e due occhi che mi fissano attraverso una “grata”. Ma sento la sua presenza più di ogni altra cosa, la sento attraverso la distanza che ci separa, attraverso la pressione che esercita sulla mia shinai, nella ricerca più o meno nervosa di un’occasione per colpirmi.
Non si da mai abbastanza importanza a questo momento, soprattutto fra i Mudan ma mi accorgo che anche i gradi più alti che praticano intorno a noi spesso scivolano nell’urgenza di sferrare il colpo.
Il luogo destinato alla pratica – due campi da basket paralleli con un parquet lucido e morbido – è gremito oltre misura. Circa duecento persone con indosso keikogi e bogu, una fitta foresta di alberi blu che con i loro rami vaganti si intrecciano e si allontanano senza sosta.
Giriamo. Ancora due occhi e una shinai, un’altra presenza, più forte, meno forte, non importa. Non importa chi hai davanti perché dall’altra parte di un jigeiko in fondo c’è solo un’altra parte di te, quella che non conosci, quella che devi superare e lasciarti alle spalle, per poi girarti e affrontarla ancora e ancora e ancora sempre con la stessa determinazione, ogni volta come se fosse l’ultima, ad ogni nuovo incrocio di spade come se fosse il primo.
Giriamo. Un altro di quei duecento, e poi un altro e un altro di quei duecento elementi componenti quell’unica energia che si crea praticando un’arte con così tante persone insieme.

Per arrivare fin qui, Alessio ha guidato al mattino presto, per un paio d’ore nell’autostrada libera e desolata. Abbiamo chiacchierato di viaggi all’estero e ascoltato musica. Siamo arrivati prima del tempo stabilito, abbiamo fatto le cose con calma. Mi piace quando riesco a interporre un discreto strato di niente fra la vita frenetica in cui quasi quotidianamente ci troviamo e la pratica del kendo. Ci siamo cambiati senza fretta nello spogliatoio ancora vuoto e semibuio, mentre l’eco del freddo della notte lasciava lentamente spazio ad abiti, borse e corpi seminudi che in pochi minuti cambieranno identità.
10.30, mokuso. Cerco di controllare la respirazione e fare il ‘vuoto’ per eliminare tensione, per rimuovere ego, pregiudizi, pigrizia e tutto ciò che possa essere deterrente alla capacità di aprirmi ad ogni possibile apprendimento; un lungo spazio da mettere fra un prima e un dopo, fra quello che sei quando entri e ciò che sei diventato quando esci.
Nonostante ciò credo di averci messo un po’ a calarmi totalmente in questo nuovo insieme. Quando si pratica nel proprio dojo è più semplice. È la nostra casa, la nostra famiglia, la nostra zona di comfort da cui spesso fatichiamo ad allontanarci.

In un seminario di queste dimensioni sei parte di quella foresta blu, ma non ne riconosci gli spazi e gli abitanti, inizi a muoverti con circospezione.

Lentamente, con il passare delle ore in qualche modo te ne impadronisci, ne subisci il fascino, ne rimescoli lo spirito. E comprendi finalmente che uscire di casa è importante tanto quanto tornarci per rinforzarne ulteriormente le fondamenta con ciò che ti ha cambiato, con quel nuovo bagaglio che ti porterai in giro.

Durante la giornata di sabato ci alterniamo, a seconda dei gradi, fra questo grande ambiente, dove pratichiamo le tecniche con shinai e bogu, e uno più piccolo dedicato all’approfondimento dei kata.

Per noi Mudan, Angela Papaccio e Leonardo Brivio eseguono i nove kihon kata con forza ed eleganza. C’è un qualcosa di eterno in questi movimenti. Figure ripetute all’infinito con una ritualità che condensa sapere e armonia, corpo e mente, concentrazione e movimento. È un perpetuo incontrarsi e scontrarsi secondo forme che diventano linguaggio comune, elemento su cui dialogare con chi sta di fronte a te, questa volta senza filtri. Non sono solo occhi, il corpo le mani la testa non sono più nascosti dall’armatura: tutto rientra in un regime di perfezione senza tempo dove ogni gesto è una parola di quel confronto che abbiamo aperto con il ritsu-rei e che attende una risposta, sempre la stessa, ma ogni volta più precisa, più circostanziata, più determinata e chiara.
Ci proviamo. Proviamo a rendere quei movimenti parte del nostro corpo, a memorizzarne i passaggi per non doverci pensare e lasciare la mente libera di volteggiare sulla scena guardandola dall’alto, vuoti e leggeri, unicamente in contatto con il nostro compagno. Ma sono solo degli attimi che si avvicinano da molto lontano a ciò che dovrebbe essere.

Rientriamo. Tutti confluiamo in una decina di file per poter fare jigeiko con i più alti in grado. È un momento in cui si ha la possibilità di misurarsi e ascoltare i consigli di chi pratica da una vita e di chi ha fatto della pratica la ‘sua’ vita. Ma siamo in tanti, i tempi di attesa sono discretamente lunghi e alcuni si confrontano liberamente fra di loro ai margini di questa anticamera senza certezza.

17.30, mokuso. Il respiro è più profondo, intenso come la giornata, pieno come un fiume in cui hanno svuotato un bacino. La mente corre verso il mare aperto, gli occhi hanno dentro tutti gli occhi di chi per un momento è stato parte altra di noi.

Dopo una breve sosta in albergo ci dirigiamo verso il centro della città per cenare in uno dei pochi posti che abbiamo trovato disponibili. L’atmosfera è calda, la cucina è fatta di tigelle, affettati o poco più. Proviamo a dare fiducia ad un lambrusco.
Alessio domani pomeriggio deve sostenere l’esame per passare al 5° Dan.
Gli esprimo la mia noncuranza nei confronti di questo genere di prove e dei passaggi da un grado all’altro.

Passare da un Dan a quell’altro è come entrare in una nuova stanza e chiudersi la porta della precedente alle spalle. Sei dentro e tutto si azzera. Tutto ricomincia da capo ma ad un livello differente. È come se sbloccassi qualcosa a cui prima non avevi
accesso.
Non sono tanto le parole quanto il tono sicuro e una strana lunghezza d’onda nello sguardo a convincermi. Come se avesse rivisto in quell’istante le immagini delle soglie varcate e risentito il lento e inesorabile scricchiolio di ciò che si chiude dietro di te per sempre, ma di fronte alla consapevolezza di una prospettiva che prima non avevi neanche idea potesse esistere. Una visione che mi ha investito chiara, netta, e la tentazione di scoprire cosa possa celarsi al di là del limite del muro che mi circonda ha rapidamente messo in discussione le mie convinzioni sulla pura pratica come unico e solo fine. Da domani comincerò a cercare la mia prossima porta.
Finiamo il vino e gironzoliamo un po’ per la città bagnata e leggermente inclinata nella notte come i suoi monumenti medioevali, come questa giornata che finisce fra vicoli antichi sparpagliando qua e là parole randagie e semiserie.

Domenica mattina.

Dentro un po’ prima degli altri anche questa volta.

Apprezzo il silenzio e la calma che ci circonda. Ci cambiamo nella penombra del mattino piovoso.
Qualcuno comincia ad arrivare e accende la luce nello spogliatoio 3.
Abbiamo i muscoli ancora provati dall’impegno di ieri. Facciamo un po’ di stretching leggero prima di cominciare.
Duecento persone in posizione seiza ciascuno con la sua armatura di fianco, ciascuno con la sua storia, ognuno con il suo respiro, la sua tecnica, la conoscenza acquisita con l’osservazione o la pratica. Duecento persone che si inchinano davanti all’esperienza e
che cercano in quell’esperienza qualcosa, anche di piccolo, di infinitamente minuto da mettere nel fagotto che, a sera, ripoteranno indietro. Il copione è un po’ lo stesso. Divisi per grado ci alterniamo fra i due ambienti: da un lato bogu, shinai e colpi passanti, dall’altro bokuto e kata. Oggi assistiamo al terzo: Sanbon-me. Ai-gedan-no-kamae. Proviamo. Comincio come Uchidachi. Ai-gedan, guardia bassa e tre lunghi passi, ci avviciniamo, comincio a sentire la pressione di Shidachi, il mio compagno che mi fronteggia e che, ovviamente, non conosco ancora. Inizio a sollevare il bokuto, lentamente, molto lentamente. Sembra incredibile quanta potenza ci possa essere nella lentezza di un movimento. Lui mi segue fino ad ai-chudan. Siamo entrambi in guardia alta, uno di fronte all’altro e continuo a sentire forte il suo semé. Avanzo, di un passo, in okuri-ashi e attacco tsuki verso sinistra, all’altezza del cuore, facendo ruotare leggermente il filo della spada verso destra.
Shi-daci indietreggia di un passo, ristabilisce la distanza che stavo cercando di rubargli quasi trascinando con sé il mio bokuto e immediatamente contrattacca con decisione.
Si muove ancora in avanti verso di me, entra con tutto il suo corpo in quello spazio che cerco nonostante tutto di controllare facendo un passo indietro e bloccandogli il colpo.
Il suo corpo avanza ancora, fa un altro passo per invadere ancora una volta il mio spazio.
Lo blocco di nuovo, ma la forza del suo semé mi rende del tutto impotente. Non posso fare altro che indietreggiare spinto dal suo continuo avanzare: tre passi avanti suoi, tre passi indietro miei con la punta del suo bokuto sempre di più fra gli occhi e il mio che si abbandona alla mia destra.
Sembra tutto finito. Provo a riprendere lentamente la guardia. Shidachi indietreggia e ci incontriamo dopo due passi, ne facciamo altri tre insieme per riprendere il centro e il contatto. Nel gioco dei ruoli, in teoria, ha vinto lui. Nella pratica abbiamo vinto entrambi.
La mattinata termina con i ji geiko con i Maestri. Bisogna essere leggeri sulle gambe, scivolare in continuazione come su un foglio di carta, cercare la propria distanza: ognuno di noi ha la sua e va conquistata centimetro dopo centimetro, attimo dopo attimo. Solo allora, solo dopo questa lenta e inesorabile costruzione, avrà senso partire, lanciare tutto il corpo nell’azione, sferrare il proprio attacco. La ricerca della distanza è un grande insegnamento e una grande metafora della vita. Una riflessione su quanto spesso ci buttiamo nelle cose senza averne valutato la corretta misura, prossimità che cambia sempre, in base alle nostre energie, al contesto, al momento della vita in cui ci troviamo. Leggeri, bisogna essere leggeri e risoluti, ma la risoluzione non è urgenza, è architettura della messa in atto.
Prima di salutarci tutti i 7° Dan si misurano tra di loro. È un’occasione rara sia per loro che per chi ha il privilegio di potervi assistere. L’esercizio del guardare è il solo modo per arrivare a vedere, forse a capire cos’è per ognuno di noi davvero il kendo e quanto del carattere e vissuto di ciascuno ci sia dentro ogni azione, dentro ogni movimento, dentro la costruzione di qualsiasi forma. Guardare ci racconta cosa vogliamo diventare ma anche cosa non vogliamo essere; a cosa aspiriamo, quale può essere il nostro modello o, a come forgiare la nostra unicità.

13.00, mokuso yame.

Un’ora di pausa prima dell’inizio degli esami può essere un tempo liquido all’interno del quale è difficile stare a galla. Alessio decide di non mangiare niente e rimane a passeggiare nella palestra che lentamente si va svuotando e riassettando per le prove del pomeriggio. È un momento a cui ci si prepara per anni ma per il quale forse non si è mai davvero pronti. Serve in tutti i casi per capire davvero dove si è arrivati e se si è pronti a varcare quella nuova soglia, ad entrare in quella stanza dove tutto si annulla e tutto ricomincia, oppure no.
Iniziano i 5° Dan. Giovani e meno giovani, storie diverse, approcci diversi. Lo svolgersi è fluido e ordinato e, tutto sommato dall’esterno non si percepisce troppa tensione. Gli iscritti sono tanti e il tempo di attesa, per quanto tutto accada con una buona organizzazione e velocità, è comunque lungo.
Guardo i ji geiko e ogni tanto Alessio che aspetta il suo turno: sembra abbastanza sereno e concentrato.
Si passa ai 4°. Tutti sono pronti disposti su varie righe ancora in attesa di quei pochi secondi che serviranno a capire da che parte dei tuoi limiti devi stare.
Alessio entra con decisione, scrolla le spalle come a cercare conferma di essere sufficientemente rilassato e saluta il suo ‘avversario’ con la schiena diritta e un inchino netto e veloce. Tre passi, sonkyo. Guardando e ascoltando si percepisce l’allerta, non ci sono falle nella presenza, nel qui ed ora. Un men kaeshi do apre un confronto che diventa subito abbastanza serrato, forse troppo. Ci si aspetterebbe più studio, un po’ più di dialogo, di tempo per costruire, ma la molla della tensione sembra prendere il sopravvento ad ogni azione. Entrambi attraversano poco e si girano molto in fretta. Lo zanshin è forte, ma il percorso per arrivarci forse troppo poco.
Avanti un altro. I due corpi che si affrontano sembrano non trovare un passaggio, si incontrano e si scontrano più di una volta al centro rimbalzando indietro al punto di partenza. Quando passa, Alessio continua a girarsi con molta fretta, quasi come non volesse perdere tempo prima di riprendere l’azione. C’è un po’ più di studio, maggiore riflessione rispetto al precedente ma finisce tutto in una manciata di minuti e ognuno torna al suo posto con la certezza di averci messo tutto ciò che aveva. Di più non c’era da fare.
Adesso è solo attesa. La valutazione di questo combattimento determinerà se proseguire l’esame con i kata oppure no. Ma non è una cosa immediata, prima devono concludere tutti gli incontri e poi si saprà qualcosa. Aspettiamo su una panca ai margini del campo, dalla quale nel frattempo guardiamo gli altri e facciamo considerazioni e inutili previsioni su chi passerà e chi no.
Finalmente qualcuno affigge dei fogli al muro con i numeri di chi è stato ritenuto idoneo. Su trentuno ne hanno promossi solo quattro e il 518 non è tra quelli.

– Ho dato tutto quello che potevo. Va bene così. – Sentenzia Alessio davanti ai fogli bianchi attaccati alla meno peggio al muro rosso. – Possiamo andare.
E allora andiamo, con un po’ di amarezza, si; ma anche con la rinnovata consapevolezza che il kendo è perseveranza e la perseveranza si acquisisce solo provando a girare la chiave in diecimila porte e mai sperando che si apra la prima. Rimaniamo ancora per un po’ in questa stanza, da domani ricominciamo a forgiare la chiave per tentare di
disserare un altro uscio, forse un po’ meno nascosto.

Gino Fienga

Ikendenshin – Kendo a Pesaro


Lascia un commento

Seminario ed esami Lucca 2018

30530501_1810215972618042_2246107303897083129_n
La palestra è ancora deserta, fuori il sole alto; la luce di una promettente primavera cerca di farsi strada all’interno. Presto questo silenzio cesserà, per lasciare il posto all’incessante battere dei piedi, alla concitazione degli incontri.
 
In avanscoperta, per l’Umi no Kenshi di Porto S. Giorgio, siamo Corinna ed io; Marco e Alessandro, pronto a sostenere l’esame di 1° kyu, ci raggiungeranno il giorno dopo. In poco tempo, i men allineati sono una lunga schiera che colora l’intera lunghezza della palestra.

Il clima è ovattato, di quella calma tesa di concentrazione in vista di una prova importante.

Dopo gli esercizi di riscaldamento e il saluto iniziale, il maestro Bolognesi ci riassume quello che sarà il programma dell’allenamento pomeridiano: tecniche base per prepararci a quanto ci verrà richiesto all’esame. Fare con calma, fare bene, queste le indicazioni. Prendersi tutto il tempo necessario per focalizzare e realizzare i movimenti nel modo più corretto e preciso possibile.
 
Indossato il bogu e divisi in due gruppi (1° kyu – shodan / nidan) i primi esercizi sono dedicati a men-uchi (grande e piccolo) e kote-uchi, analizzati nei singoli dettagli. Viene evidenziato il ruolo primario della mano sinistra che deve essere salda per imprimere la corretta direzione alla shinai; del piede sinistro che, in spinta continua, muove tutto il corpo e consente, nel momento in cui è richiamato, di effettuare tagli netti e precisi e ripartire in avanti.
Si ricorda che non è considerato ippon il colpo che finisce sul men-gane, per cui si richiedono profondità e braccia ben distese.
Una attenzione particolare è quindi dedicata alla ricerca della distanza funzionale all’attacco.
 
Si continua con una sequenza di oji-waza, tra cui: men-kaeshi-do, men-suriage-men, kote-nuki-men, evidenziando la necessaria continuità d’azione tra semé e waza, con fluidità di movimento, sempre proiettati in avanti, senza timore di essere colpiti (sutemi).
 
La pratica del kirikaeshi, prova d’esame per gli aspiranti 1° kyu e shodan, occupa buona parte dell’allenamento e viene proposta in due forme: nella prima, motodachi riceve senza parare; nella seconda (la corretta, viene specificato) motodachi para regolarmente. Si sottolinea come, in entrambe le versioni, kakarité deve andare sempre correttamente in sayu-men a bersaglio, senza lasciarsi condizionare dalla posizione della shinai dell’avversario. Si aggiunge che non è la forza, ma il movimento delle gambe a consentire tagli efficaci.
 
Tutte le indicazioni vengono sintetizzate nel mawarigeiko finale, che ci vede confrontare l’uno contro l’altro in jigeiko.
 
La stanchezza del viaggio e dell’allenamento si fanno sentire. La tensione per l’esame altrettanto, ma mai quanto il giorno dopo, quando, di prima mattina, ci ritroviamo in palestra per il keiko. Ora siamo molti di più, e ci avviciniamo tutti spalla a spalla dopo lo stretching per il saluto con il bokken. Che il momento della prova si stia avvicinando è evidente dai volti tirati di molti.
 
Il mio gruppo (1° kyu – shodan) è guidato da Papaccio e Brivio. Ci concentriamo sulla pratica delle prime tre forme dei kata che ci saranno poi richieste in sede d’esame. In particolare il terzo viene scomposto nei suoi principali passaggi. La buona notizia è che non siamo caduti nel tipico errore di uchitachi di andare indietro – dopo le parate – con il piede destro, piuttosto che con il sinistro. La cattiva è che i primi tsuki che uchitachi e shitachi si scambiano sono tutti troppo alti: non bisogna mirare alla gola ma piuttosto allo sterno/stomaco. Ci viene ricordato inoltre che, quando si para, il movimento parte dalle anche e le braccia seguono.
 
Si torna a kirikaeshi e vengono ribaditi i concetti già espressi nel pomeriggio precedente. Il tempo sembra scorrere improvvisamente più veloce e ci ritroviamo in un intenso mawarigeiko finale a cui i sensei si uniscono per fornire gli ultimi consigli prima dell’esame. Il jigeiko è stancante, il confronto con gli altri mette in luce altri dubbi e insicurezze, ma i movimenti a mano a mano si fanno più fluidi e l’esercizio scalda il corpo per prepararlo alla prova.
 
Congedati, nell’attesa di ricevere i numeri, tra gli esaminandi qualcuno mangia, altri sistemano il bogu e drappeggiano con cura l’hakama. C’è chi stempera l’agitazione chiacchierando o provando tecniche con i compagni. La macchinetta sforna caffé a ripetizione. Tutto poi accade velocemente; in breve ci ritroviamo allineati nelle rispettive pool, pronti a dare il nostro meglio. E così è stato.
 
Al termine delle prove, il maestro Bolognesi ha elogiato l’impegno di tutti; un appunto è stato fatto sui kata, di cui ha riconosciuto la necessità di un maggiore studio, e sul kiai, da potenziare. Ha quindi invitato a non considerare l’esito negativo come un fallimento ma piuttosto come una preziosa occasione di riflessione, incoraggiando invece i promossi a impegnarsi per consolidare da questo momento in avanti il grado raggiunto.
 

Personalmente, vedere e conoscere tanti kendoka da città diverse, ognuno con la propria storia e motivazione, così impegnati nella pratica, è sempre un motivo di forte emozione. Ho apprezzato inoltre molto la capacità dei sensei di trasmettere tranquillità e al tempo stesso grinta per disporci all’esame con la massima serenità possibile, senza perdere mai di vista l’obiettivo principale: imparare.

 

Davvero grazie a tutti quelli che hanno condiviso con me questa esperienza e con i quali mi sono confrontata; a tutti i compagni del dojo Umi no Kenshi che, in modi diversi – ognuno di loro sa come – mi hanno incoraggiato in vista dell’esame di shodan.
Grazie, infine, con il cuore a chi mi ha detto parole che mi hanno permesso di superarmi.

 
Ed ora, festa!
Michela Sbaffo
30051878_1810568932582746_506979190534984299_o


2 commenti

Esami Kyusha Maggio 2017

18557104_1191157257662272_7868847104377876127_n

Il 18 Maggio 2017 i dojo Ikendenshin di Pesaro e Uminokenshi di Porto San Giorgio hanno condiviso una sessione d’esame rivolta ai kyusha.
Questa data si aggiunge ad un lungo elenco che testimonia come nell’ultimo decennio nelle Marche sia viva l’usanza di svolgere gli “esami interni”… all’esterno! Al piacere di incrociare lo shinai con vecchi amici e nuovi kendoka questo aggiunge degli elementi importanti e propri del kendo.

L’esaminando deve mostrare la qualità del proprio kendo in poco tempo a degli esaminatori che non lo conoscono. Prende vita lo slogan del Trofeo dell’Adriatico: “Tutto in un solo colpo”.

I praticanti vengono a contatto con l’aspetto “sociale” del kendo. Il loro è un percorso comune che più volte si incrocerà e si affiancherà a quello dei ragazzi e delle ragazze con coi hanno condiviso i primi esami. In futuro avranno altre occasioni per misurarsi, dovranno di certo sostenersi nei momenti più delicati, stimolarsi, mettersi in competizione, trarre ispirazione gli uni dagli altri, “invidiarsi” e, non meno importante, condividere le spese dei vari spostamenti in giro per l’Italia con gli shiai in spalla!

Vi è inoltre un’espressione di grande umiltà nell’accettare di essere giudicato/valutato/misurato da sconosciuti. Sarà certamente capitato e certamente capiterà che il risultato non sia in accordo con le aspettative o con la realtà, ma è la bandierina che si alza per un ippon che giudichiamo inesistente, è il contendente con cui non riesci ad esprimere il tuo valore, è il praticante che si allena meno e che riesce ad ottenere risultati migliori dei tuoi, è la vita. This is Kendo!

Infine c’è il daini dojo!

I nostri 6 eroi si sono comportati egregiamente, distribuendosi i gradi di 4° e 3° kyu. Ora si torna in palestra dove, poco importa il grado, c’è sempre da indossare il men e toglierselo solo quand’è grondante di sudore!


Lascia un commento

Esame 8°dan, c’è anche la CIK

wp-1493667826151.

Quella di oggi è una tappa storica della nostra federazione e soprattutto dei protagonisti della foto.

Come avevamo promesso qui, il M° Moretti ha iniziato quel percorso terribilmente difficile per ottenere l’8°dan. Assieme a lui anche Livio Lancini nella prima sessione di Kyoto che ha visto solo 8 promossi su 875 (0,9%…).

Non è andata bene, ma considerato l’eccezionale livello di selezione, è naturale considerare del tutto normale l’esito.

Bravissimi comunque!